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Mercato immobiliare e mutui: un primo bimestre in discesa

È stato reso noto dal Consiglio Nazionale del Notariato sulla base delle rilevazioni effettuate attraverso i Dati statistici Notarili (DSN): nei primi due mesi del 2023, a Roma, Milano, Napoli, Bari, Bologna, Torino, Palermo, Verona e Firenze le richieste di mutuo risultano in discesa, mentre il ‘calo’ delle compravendite di fabbricati abitativi è più diversificato sul territorio. La ricognizione del mercato immobiliare italiano effettuata dal Notariato sul primo bimestre dell’anno ha considerato 9 grandi città italiane in merito a mutui, surroghe, e compravendite di fabbricati abitativi.

Compravendite: a febbraio in calo tranne a Torino 

Sebbene a livello nazionale il calo delle compravendite sia del 2,7%, province come Bari, Bologna, Torino e Palermo mostrano valori in controtendenza, attestandosi a variazioni positive rispetto al primo bimestre 2022. Dai dati positivi di Torino (+3,26%), Bologna (+2,88%), Bari (+1,14%) e Palermo (+2,11%) si passa al calo di centri importanti come Milano (-3,74%), Verona (-1,45%), Roma (-2,09%), Firenze (-5,28%), Napoli (-14,9%). Nel mese di febbraio 2023 in tutte le città si registra comunque un calo delle compravendite, tranne a Torino, dove le transazioni sono addirittura maggiori rispetto a gennaio.

Mutui: Milano -21,04%, Roma -20%

A Milano nel primo bimestre 2023 si è registrato un calo del 3,74% del mercato immobiliare rispetto allo stesso periodo del 2022. Tutti i segmenti sono coinvolti, -11,84% prime case tra privati, -29% prime case da impresa, -10,04% seconde case tra privati, -8,33% seconde case da impresa.
Ancora più forte è il calo dei mutui: -21,04% rispetto allo stesso periodo del 2022. E si registra un calo anche nelle surroghe di circa il -17,5%. A Roma, il calo delle compravendite è del 2,09%, mentre per il segmento prime case tra privati si attesta a -3,89%, e per quelle acquistate dal costruttore addirittura a -27,38%. Resta invece positivo il dato totale delle transazioni per le ‘seconde case’ (+7.05% da privati, +4,75% da costruttore). Il calo dei mutui è poi pari a -20%, e le surroghe sono scese del 12,64%. Dopo una leggera diminuzione a gennaio 2023 (-1.56%), a partire da febbraio crollano a -23,31%.

Stime per l’anno in corso: mercato a -10,7%

Data la disponibilità della serie storica dei Dati Statistici Notarili dal 2017 al 2022, sono state inoltre fatte stime tendenziali sull’andamento del mercato immobiliare nel 2023. Sono previsioni basate su analisi e modelli matematici di dati che potrebbero non tenere conto di incertezze e variazioni impreviste, fornendo indicazioni e andamenti di sviluppo nelle aree di interesse. Nello specifico, ci si è posti l’obiettivo di misurare il trend nelle transazioni di compravendite di beni immobili e sui mutui erogati. Per il 2023, sulla base dello studio statistico a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, ci si aspetta un calo del mercato del 10,7% rispetto al 2022. La riduzione è generalizzata su prime e seconde case, sia da acquisto tra privati sia da impresa, anche se i dati specifici evidenziano importanti differenze.

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Superbonus e bonus edilizi: dall’Agenzia delle Entrate novità per ripartire i crediti

Dal prossimo 2 maggio nell’area riservata del sito dell’Agenzia delle Entrate sarà disponibile una nuova funzionalità per superbonus, sismabonus e bonus barriere architettoniche. All’interno della Piattaforma cessione crediti i soggetti titolari di crediti da bonus edilizi (imprese edilizie, banche e altri cessionari) possono infatti comunicare se decidere di ripartire in 10 anni i crediti non ancora utilizzati per i quali è stata comunicata la prima opzione entro lo scorso 31 marzo. La comunicazione potrà riguardare anche solo una parte della rata del credito disponibile. Con successive comunicazioni potranno essere infatti rateizzati sia la restante parte della rata sia eventuali altri crediti acquisiti nel frattempo. 

Fornitori e cessionari potranno diluire i crediti

Sono alcune novità contenute nel provvedimento in attuazione delle ultime modifiche normative in materia, che fornisce le istruzioni ai fornitori e ai cessionari che intendono usufruire di questa possibilità. La possibilità di diluire i crediti in 10 anni si applica a quelli relativi a interventi agevolati derivanti dalle opzioni per la prima cessione, o per lo sconto in fattura, comunicate all’Agenzia entro il 31 marzo di quest’anno. Il provvedimento specifica che la quota residua di ciascuna rata annuale dei crediti d’imposta, anche acquisita a seguito di cessioni successive alla prima opzione, e non utilizzata in compensazione, può essere ripartita in 10 rate annuali di pari importo.

Opzioni per la prima cessione o lo sconto in fattura

In particolare, la nuova ripartizione per il superbonus può essere effettuata per la quota residua delle rate dei crediti riferite agli anni 2022 e seguenti per i crediti derivanti dalle comunicazioni delle opzioni per la prima cessione o lo sconto in fattura inviate all’Agenzia delle Entrate fino al 31 ottobre 2022, e agli anni 2023 e seguenti per i crediti derivanti dalle comunicazioni inviate all’Agenzia dal primo novembre 2022 al 31 marzo 2023. Nonché per il sismabonus e il bonus barriere architettoniche le comunicazioni inviate fino al 31 marzo 2023. Ciascuna nuova rata annuale potrà essere utilizzata esclusivamente in compensazione, e non potrà essere a sua volta ceduta, né ulteriormente ripartita.

Rateizzare parte della rata ed eventuali altri crediti acquisiti

Fornitori e cessionari potranno comunicare all’Agenzia la volontà di optare per la rateizzazione lunga, al posto di quella originariamente prevista, semplicemente accedendo all’area riservata del sito dell’Agenzia. La comunicazione può riguardare anche solo una parte della rata del credito al momento disponibile. Con successive comunicazioni potranno essere infatti rateizzati, anche in più soluzioni, la restante parte della rata e gli eventuali altri crediti nel frattempo acquisiti. Se alla fine del 2023 il soggetto avrà altri crediti residui non compensabili, riferisce Adnkronos, potrà comunicare all’Agenzia di volerli ripartire nei successivi dieci anni. In alternativa a questa prima soluzione, sarà possibile attendere la fine del 2023 per avere contezza dei crediti residui non compensabili, e inviare la relativa comunicazione all’Agenzia.

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Aumentano gli investimenti per attrarre talenti, ma non per trattenerli

Sembra che le imprese italiane siano più attente all’attraction di talenti piuttosto che alle iniziative di retention. In un mondo del lavoro caratterizzato dalla ‘talent scarcity’, quasi tutte le imprese italiane stanno rielaborando i propri piani per le risorse umane. Con alcuni importanti passi avanti nelle strategie di attrazione del personale, ma anche con alcune carenze nella creazione della ‘talent expertise’, e scarsi investimenti in formazione e benessere dei dipendenti. È quanto ha scoperto il Talent Trends Report di Randstad Sourceright, che ha individuato i 10 trend nella gestione delle risorse umane per il 2023 in 18 Paesi del mondo, tra cui l’Italia.

La visione degli Hr italiani è un po’ ambigua

Le risposte del Talent Trends evidenziano una visione un po’ ambigua da parte degli Hr italiani riguardo ai principali trend del settore. Nel nostro Paese i responsabili delle risorse umane si dichiarano fortemente impegnati in azioni di talent acquisition, con il 94% che manterrà o aumenterà gli investimenti per l’employer branding, e il 73% che ha realizzato strategie del personale basate sul creare valore totale per l’organizzazione piuttosto che sul ridurre i costi. Ma, alla prova dei fatti, solo il 23% delle aziende italiane, percentuale in grave ritardo rispetto al 76% a livello globale, ha potenziato negli ultimi 12 mesi la talent experience sulla base dei fattori che favoriscono l’attrazione, la fidelizzazione, il coinvolgimento e la mobilità professionale.

Indietro rispetto alla media globale 

Il 75% degli Hr italiani oggi dà maggiore importanza rispetto al passato alle competenze e al coinvolgimento dei dipendenti, ma solamente il 14% sta investendo in piattaforme di formazione per attrarre talenti, molto indietro rispetto al 63% rilevato a livello globale. Per circa un terzo degli Hr italiani (29%, una percentuale in linea con gli altri Paesi, 25%), poi, i licenziamenti hanno avuto un impatto negativo e il 23% offre ai propri dipendenti servizi di outplacement per superare questo problema.

Sostenibilità, conviene o no all’azienda?

Per attrarre nuovi talenti e offrire un’esperienza lavorativa significativa, riporta Adnkronos, quasi 7 Hr su 10 in Italia considerano determinanti le strategie di Diversity&Inclusion della loro azienda, tuttavia il 39% di loro teme che saranno meno prioritarie nel 2023. Inoltre, finita l’emergenza della pandemia, solo il 27% dei leader Hr spenderà di più in programmi di benessere e sicurezza (contro il 54% mondiale), mostrando un evidente gap rispetto alla media degli altri Paesi. Inoltre, c’è la diffusa consapevolezza che adottare pratiche etiche e sostenibili consenta di attirare talenti della Generazione Z, ma il 58% dei talent leader teme che la sostenibilità possa avere un impatto negativo sulla redditività, e il 56% che l’azienda possa considerarla meno prioritaria in caso di crisi economica.

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Pos: i pagamenti con carte e bancomat pesano sulle imprese

Dal 2012 al 2023 l’Italia è diventato il Paese europeo con il più alto numero di Pos (3,9 milioni), anche se il numero di operazioni rimane ancora sotto la media. Più alto, invece, è l’importo medio delle transazioni, che oggi corrisponde a circa 50 euro. Ma tra commissioni e costi accessori l’uso di carte e bancomat nel 2022 è costato alle imprese italiane almeno 5 miliardi di euro. Un onere che grava in proporzione soprattutto sulle attività di minori dimensioni, che vedono restringere i margini a causa degli alti costi delle commissioni.  A stimarlo è Confesercenti, in vista del Tavolo tecnico per il taglio delle commissioni sui pagamenti tramite Pos, convocato dal Ministero dell’Economia.

Più penalizzate tabaccherie, benzinai, edicole

Nel 2022 le transazioni con pagamenti digitali hanno raggiunto 400 miliardi di euro, quasi il 40% del totale speso degli italiani, e nel 2023 sarà il 50%. Un risultato ottenuto con grandi costi a carico degli esercenti. L’indagine Confesercenti, infatti, restituisce un peso delle commissioni fino e oltre l’1,4% del transato per le attività minori, dove l’incidenza dei pagamenti in moneta elettronica sul totale è in rapida crescita, e in alcuni casi, come nell’abbigliamento, raggiunge anche l’80% delle vendite.
Ma i costi delle commissioni sono un problema soprattutto per tabaccherie, gestori carburanti, edicole e tutte le altre attività caratterizzate da piccoli margini sul venduto.

Ridurre i costi delle commissioni per le piccole attività

Dopo tutto questo tempo, gli esercenti attendono finalmente una soluzione al problema. L’obiettivo dichiarato del Tavolo è la riduzione dei costi della ‘moneta di plastica’ per i circa 2,5 milioni di piccole attività con meno di 400 mila euro di fatturato annuo. La speranza è che non si proceda a un semplice restyling dei provvedimenti attuali (il credito di imposta previsto ora è insufficiente), ma che si arrivi a una vera riforma che favorisca la diffusione delle transazioni elettroniche attraverso una distribuzione più equa dei costi. Per raggiungere questo risultato, però, è necessario che il governo svolga un ruolo attivo, non di semplice garante.

Moneta elettronica sì, ma non deve sfavorire gli esercenti

Una maggiore diffusione della moneta elettronica favorirebbe la modernizzazione del sistema economico del paese, un obiettivo che Confesercenti condivide. Ottenerlo con un obbligo calato dall’alto crea però una distorsione a sfavore degli esercenti. Per questo i provvedimenti di questo tipo sono solitamente accompagnati da agevolazioni, non solo da sanzioni. Confesercenti propone quindi di costituire un Osservatorio per rendere chiari i costi attuali della moneta elettronica. Ma anche di rendere gratuite le transazioni sotto 30 euro per le attività sotto i 400 mila euro di fatturato annuo, aiutarle a dotarsi di dispositivi contactless. e predisporre un nuovo credito di imposta della durata di tre anni, su tutte le transazioni.

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Lombardia, quanto sono costati luce e gas nel 2022?

Fino al 108% in più rispetto all’anno precedente. Tanto hanno dovuto spendere le famiglie lombarde per la fornitura di luce e gas nel corso del 2022. Lo evidenzia un’analisi di Facile.it. A parità di consumi, secondo il report, le famiglie residenti in Lombardia con contratto di fornitura nel mercato tutelato, nel 2022 hanno speso per la sola bolletta elettrica 1.375 euro, vale a dire il 108% in più rispetto al 2021, e 1.639 euro per il gas (+57%). Quest’ultimo dato fa guadagnare alla regione il terzo posto nella classifica delle aree d’Italia dove, lo scorso anno, si è speso di più per la bolletta del gas, preceduta dal Trentino-Alto Adige e dall’Emilia-Romagna.
Il calo del prezzo della materia prima registrato a inizio 2023, però, potrebbe far ben sperare.

Provincia per provincia la bolletta elettrica…

Complessivamente, quindi, tra luce e gas, nel 2022 gli abitanti della Lombardia hanno sborsato, mediamente, 3.014 euro a famiglia (rispetto ai 1.703 euro del 2021), ma in quali province si è speso di più? Focalizzandosi sulla sola energia elettrica ed analizzando i dati su base provinciale, al primo posto si posiziona Mantova, area dove il consumo medio a famiglia rilevato nel 2022 è stato pari a 3.352 kWh che, considerando le tariffe dello scorso anno in regime di tutela, corrisponde ad un costo di 1.633 euro; seguono Cremona (1.543 euro, 3.166 kWh), Brescia (1.520 euro, 3.119 kWh) e Lodi, provincia dove sono stati messi a budget, mediamente, 1.475 euro per un consumo medio rilevato di 3.028 kWh.
Continuando a scorrere la graduatoria lombarda troviamo Pavia (1.458 euro, 2.993 kWh), Como (1.438 euro, 2.952 kWh), Varese (1.433 euro, 2.942 kWh) e Bergamo (1.382 euro, 2.836 kWh). Valori inferiori alla media regionale per Monza e Brianza, dove il costo della bolletta elettrica è stato di 1.362 euro (2.796 kWh), Lecco (1.344 euro, 2.759 kWh) e Sondrio (1.280 euro, 2.627 kWh) Chiude la classifica Milano, provincia che, nel 2022, ha rilevato i consumi più bassi della regione (2.598 kWh) e quindi la bolletta più “leggera” (1.266 euro).

… e quella del gas

Anche sul fronte del gas le bollette sono differenziate a seconda dei consumi medi rilevati. Al primo posto tra le province più care della Lombardia si posiziona Como, dove il consumo medio a famiglia è stato di 1.510 smc per un costo complessivo di 1.931 euro. Seguono Lecco (1.908 euro, 1.492 smc), Varese (1.900 euro, 1.486 smc) e Pavia (1.862 euro, 1.456 smc). Continuando a scorrere la classifica regionale troviamo Mantova (1.833 euro, 1.433 kWh), Cremona (1.719 euro, 1.344 kWh) e Lodi (1.661 euro, 1.299 kWh).
Valori inferiori alla media lombarda per Monza e Brianza (1.634 euro, 1.278 smc), Brescia (1.588 euro, 1.242 smc) e Sondrio, provincia dove una famiglia, nel 2022, ha speso mediamente 1.576 euro (1.232 smc). Chiudono la classifica Bergamo (1.549 euro, 1.211 smc) e, ancora una volta, Milano, dove sono stati messi a budget per il gas 1.444 euro (1.129 smc).

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Imprese femminili: più digitali e green, ma investono poco

La ripresa post-pandemia ha convinto il 14% delle imprese femminili a iniziare a investire nel digitale, contro l’11% delle aziende maschili, e il 12% a investire nel green. A queste si aggiunge un ulteriore 31% che in questi anni ha aumentato o mantenuto costante gli investimenti in tecnologie digitali, e il 22% che ha fatto altrettanto nella sostenibilità ambientale. Insomma, quanto a voglia di innovazione le imprese femminili hanno una marcia in più. Le donne d’impresa si sono lanciate nella duplice transizione che le politiche europee sostengono con forza, ma non senza difficoltà. La metà delle imprese femminili ha infatti interrotto gli investimenti o esclude di volerli avviare nel prossimo futuro.
Lo attesta il V Rapporto sull’imprenditoria femminile, realizzato da Unioncamere in collaborazione con il Centro studi Tagliacarne e Si.Camera.

Le attività guidate da donne sono il 22,2% del totale

A fine giugno 2022, l’esercito delle imprese femminili conta un milione e 345mila attività, il 22,2% del totale delle imprese italiane. Questo universo ha caratteristiche proprie rispetto alle imprese gestite da uomini: maggior concentrazione nel settore dei servizi (66,9% vs 55,7%), minori dimensioni (il 96,8% sono micro imprese fino a 9 addetti vs 94,7% delle maschili), forte diffusione nel Mezzogiorno (36,8% vs 33,7%). Le imprese femminili hanno però una minore capacità di sopravvivenza: a tre anni dalla costituzione, restano ancora aperte il 79,3% delle attività, rispetto all’83,9% di quelle a guida maschile, e dopo cinque anni, la quota delle imprese che sopravvivono è del 68,1%, contro il 74,3% delle altre.

Più imprenditrici nell’industria, servizi, società di capitali, e Mezzogiorno

Nel secondo trimestre 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, il numero delle imprese femminili è rimasto sostanzialmente stabile, crescendo di 1.727 unità (+0,1%). Il confronto con lo scorso anno mostra un incremento delle imprese femminili soprattutto nell’industria (+0,3%) e nei servizi (+0,4%), tra le società di capitali (+2,9%), nel Mezzogiorno (+0,6%), tra le imprese straniere (+2,6%).
Le imprese giovanili femminili sono poi il 10,5% del totale delle aziende condotte da donne, mentre l’imprenditoria giovanile pesa il 7,6% sull’insieme di quelle maschili. Inoltre, le imprenditrici di origine straniera tra le imprese femminili sono l’11,8%, a fronte del 10,4% di quelle condotte da uomini.

Migliorare la formazione su nuove tecnologie 4.0

“Di fronte alle grandi sfide poste dal PNRR al sistema produttivo nazionale, le donne italiane a capo di un’impresa stanno rispondendo positivamente, accelerando sul fronte degli investimenti digitali e in tecnologie più rispettose dell’ambiente – commenta Andrea Prete, presidente Unioncamere -. Ma questa inclinazione va sostenuta e aiutata. Le imprenditrici, infatti, sentono l’esigenza di migliorare la formazione alle nuove tecnologie 4.0 e green sia a livello scolastico sia universitario, avere un accesso più facile alle risorse finanziarie, semplificare le procedure amministrative. E chiedono anche una forte e costante attività di sensibilizzazione su questi temi, per comprenderne meglio la portata e gli effetti”.

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730 precompilato, le novità del 2022

E’ già disponibile on line il modello 730 precompilato, a cui si può accedere con le credenziali del sistema pubblico di identità digitale (spid), carta d’identità elettronica (cie), carta nazionale dei servizi (cns). Il documento può essere integrato di varie informazioni, corretto e ovviamente inviato all’Agenzie delle Entrate entro il 30 settembre. Per le persone fisiche, invece, il documento va spedito entro il 30 novembre.

Delegare la gestione della dichiarazione a un familiare

La novità del 2022, riporta Adnkronos, è la possibilità di affidare la gestione della propria dichiarazione a un familiare. In particolare, sarà possibile conferire una procura al coniuge o a un parente (o affine) entro il quarto grado attraverso un apposito modello, disponibile sul sito istituzionale dell’Agenzia. Il modello potrà essere inviato dal contribuente (rappresentato) direttamente online tramite i servizi telematici, allegando copia della carta d’identità del rappresentante oppure via pec a una qualsiasi direzione provinciale delle Entrate. Nel caso di trasmissione tramite pec di una scansione del documento cartaceo (ad esempio il modello di procura firmato su carta) e nel caso di presentazione presso uno sportello dell’Agenzia sarà necessario allegare copia della carta d’identità di entrambi, rappresentato e rappresentante.

Anche extra familiari

Sarà inoltre possibile scegliere anche una persona di fiducia diversa da un familiare. Qualora la persona a cui si intende affidare la gestione della propria dichiarazione non sia il coniuge né un parente entro il quarto grado, sarà comunque possibile conferire la procura presso un ufficio. Una semplificazione ulteriore è poi prevista per le persone impossibilitate a recarsi in Agenzia a causa di patologie: in questo caso la procura può essere presentata direttamente dal rappresentante, insieme a un’attestazione del medico di base del rappresentato. La procura non può essere conferita a titolo professionale; inoltre ogni contribuente può designare un solo rappresentante e ogni persona può essere designata al massimo da tre contribuenti. Le abilitazioni avranno validità fino al 31 dicembre dell’anno in cui sono state rilasciate.

Più facile pure per gli eredi

Precompilata più semplice anche per gli eredi, che da quest’anno potranno richiedere l’abilitazione necessaria per accedere alla dichiarazione del familiare direttamente online, senza necessità quindi di recarsi in ufficio. Infine, chi presenta la dichiarazione in qualità di genitore, tutore o amministratore di sostegno, potrà trasmettere la richiesta per l’abilitazione, oltre che con le consuete modalità, anche tramite il servizio online “Consegna documenti e istanze”, disponibile nell’area riservata del sito internet delle Entrate.

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Gli italiani tornano a investire: sì al risparmio gestito no titoli di stato e “mattone”

La propensione al risparmio degli italiani, pari all’8,1% del reddito disponibile nel 2019, nel 2020 è aumentata al 15,6%, e oggi è pari al 13,1%. Per far ripartire gli investimenti sono disponibili tante risorse private, di cui una quota rilevante è in forma liquida sui conti correnti bancari degli italiani. Negli ultimi 10 anni, liquidità e depositi delle famiglie hanno infatti registrato un boom (+32,1%) e una crescita del 3,7% rispetto al 2020, volando sopra i 1.600 miliardi di euro. Al terzo trimestre 2021 è di 5.000 miliardi di euro il valore del portafoglio finanziario degli italiani, +25,5% negli ultimi dieci anni, e +5,9% rispetto al 2020. Sono alcuni risultati del Rapporto ‘Investire di più, investire nell’economia reale’, realizzato dal Censis in collaborazione con Assogestioni, l’Associazione italiana del risparmio gestito.

Metà risparmiatori pronti a “scongelare” un po’ di liquidità

Il Rapporto distingue quattro gruppi di risparmiatori: il 21,5% è impaurito, pronto ad ampliare l’attuale quota di liquidità, anche a scapito di altre forme di risparmio, il 30,8% è cauto, vuole preservare la propria quota di contante senza penalizzare altre forme di risparmio, e il 36,4% è un investitore moderato, pronto a investire almeno in parte il contante accumulato. I risparmiatori più audaci sono l’11,3%: solidi dal punto di vista patrimoniale, abituati agli investimenti azionari, sono propensi a investire in attività finanziarie ad alto rischio e alti rendimenti potenziali. In sintesi, circa la metà dei risparmiatori è pronta a scongelare un po’ della propria liquidità facendola affluire verso gli investimenti.

Investire “etico” e nelle Pmi italiane

Quali sono i requisiti degli investimenti che potrebbero stimolare le persone a dirottarvi risorse? Il 38,8% vorrebbe rendimenti più alti, il 25,6% costi dei servizi di gestione più bassi, il 22,8% rassicurazioni sul valore reale dell’investimento. Aiuterebbe a vincere paure e resistenze dei risparmiatori anche l’evoluzione di aspetti di contesto, come un sistema di welfare più ampio e rassicurante (28,0%) e un allentamento dell’incertezza generale (22,8%). Il 78,2% dei risparmiatori è poi propenso a effettuare investimenti etici, e il 54,4% investirebbe in Pmi italiane. Quanto ai titoli di Stato, il 71,7% non li acquisterebbe, mentre il 55,5% non reputa convenienti gli investimenti immobiliari. Insomma, i titoli di Stato, per ora, non hanno appeal e il mattone non è più ritenuto l’investimento sicuro e remunerativo.

Il ruolo dei consulenti finanziari

Il 40,0% degli italiani conosce gli strumenti del risparmio gestito. Tra chi li conosce, il 46,2% ne ha fiducia, e la propensione a investire in questi prodotti risulta buona: il 53,1% dei risparmiatori lo farebbe e il 10,9% lo ha già fatto in passato. Decisivo è il ruolo della consulenza finanziaria, da cui il 40,8% degli italiani si aspetta chiarezza, il 39,5% competenza, il 24,3% attenzione alle esigenze del cliente, il 21,7% esperienza. Positivo è anche il giudizio espresso dai consulenti finanziari: il 50,5% rileva che negli ultimi due anni è aumentata la fiducia dei clienti nel risparmio, e per il 48,6% la clientela si aspetta che i propri interlocutori infondano sicurezza in merito alle scelte di gestione dei propri soldi.

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Aumenta il cashless fra i giovani imprenditori italiani

Piccoli sì, giovani anche, ma tecnologicamente avanzati spese si tratta di modalità di pagamento. E’ quanto ha evidenziato l’ultimo Osservatorio Small Business di SumUp, che ha rilevato che in Italia, tra il 2021 e il 202, sono cresciuti del 35,6% i giovani imprenditori tra i 25 e i 29 anni titolari di un Conto Aziendale SumUp e del 66,6% quelli tra i 20 e i 24 anni. Gli analisti rilevano che diminuiscono i prelievi di contanti, che a marzo 2022 risultano del 36,3% inferiori rispetto allo stesso periodo del 2021, mentre sono sempre più diffusi gli acquisti online e le modalità di pagamento contactless. 

Le spese dei commercianti si concentrano su su alimentari e utility 

L’analisi ha esplorato anche quali siano gli ambienti in cui si concentrano maggiormente le spese da parte di commercianti. Si scopre così che, in linea con quello che sta accadendo a tutti i livelli della società, gli investimenti vanno nella direzione di alimentari e utility e cresce l’acquisto di carburante, soprattutto tra febbraio e marzo 2022 (+15%). “Dalla ricerca emerge uno spaccato interessante delle tendenze di spesa e di consumo degli imprenditori italiani, che inevitabilmente riflettono anche gli attuali cambiamenti economici cui stiamo assistendo a livello globale” sottolinea Umberto Zola, Growth Marketing Lead – Merchant Bank di SumUp. “La pandemia – sottolinea il manager- ha messo in difficoltà le aziende di tutte le dimensioni, per cui è senz’altro incoraggiante cominciare a vedere come i giovani si stanno stabilizzando e avviando attività in proprio”.

Digitalizzazione a 360 gradi

“Più in generale, i dati mostrano chiaramente il peso che stanno assumendo la spesa online e i pagamenti cashless, dovuto alla spinta alla digitalizzazione portata dalla pandemia. In SumUp abbiamo l’obiettivo di supportare i nostri commercianti nel miglior modo possibile, adattando i nostri servizi per soddisfare le esigenze in continua evoluzione del panorama aziendale. Proprio l’analisi di queste tendenze ci permette di affiancare al meglio i nostri clienti nelle loro attività” commenta anxcora Zola. I dati mostrano, in particolare, che a possedere un Conto Aziendale SumUp nel primo trimestre 2022 sono soprattutto i commercianti tra i 45 e i 49 anni (14,6%% del totale), seguiti dagli imprenditori tra i 40 e i 44 anni (14,1%). I più giovani (tra i 20 e i 29 anni) rappresentano quasi l’11%, ma sono in crescita rispetto al primo trimestre del 2021, quando rappresentavano il 7,4%.

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Cibo Made in Italy, boom per l’export

Il Made in Italy è sempre una certezza, a maggior ragione se si tratta di cibo. L’agroalimentare tricolore, infatti, ha registrato un vero e proprio boom nel 2021, raggiungendo i 50 miliardi di euro con una crescita di valore del 15% rispetto al 2019 e dell’11% sul 2020. “Più cibo italiano sulle tavole di tutto il mondo. L’effetto della pandemia, nei due anni tra 2020 e 2021, ha consentito all’agroalimentare made in Italy di incrementare la propria presenza meglio di quanto abbiano fatto molti avversari commerciali”: si apre così il servizio che il settimanale economico del Gambero Rosso, “TreBicchieri”, dedica all’agrifood. 

Pasta, olio, formaggi e vini superstar

I prodotti vincenti delle esortazioni sono stati prodotti quali la pasta, l’olio extravergine d’oliva, i formaggi, il vino, quest’ultimo definito come un “vero alfiere e protagonista” di una performance che lo ha portato a totalizzare bel oltre i 7 miliardi di euro, riporta una nota di Agi. E la sesta edizione del forum Agrifood monitor promosso da Nomisma con Crif, sistemi di informazioni creditizie, riferisce di una  “performance sorprendente” per il settore. E il 2021 viene definito “un anno straordinario per l’export italiano” secondo il giudizio di Denis Pantini, responsabile agroalimentare di Nomisma, proprio “grazie ad una crescita che ha coinvolto tutti i prodotti, portando a incrementi della quota di mercato dell’Italia in molti mercati mondiali”.

Le esportazioni in valore

In base ai dati raccolti, l’Italia ha visto aumentare nel corso del 2021 e rispetto al 2019 il suo peso a valore all’interno dei più importanti Paesi importatori, passando da 15,4% a 16% in Svizzera, da 7,8% a 8,7% in Germania, da 8,3% a 8,7 % in Francia, da 5,6% a 6,3% in Uk, da 4,4% a 4,7% in Australia, dal 3,1% al 3,5% in Russia. Stabili gli Usa (3,5%) mentre si perde qualcosa nel rapporto con la Cina, che passa dal 2% all’1,9%, soprattutto perché i cinesi, che hanno incrementato l’import in periodo pandemico di oltre il 45%, hanno acquistato in prevalenza commodity agricole, che non rappresentano il core business italiano, fatto invece di prodotti trasformati e lavorati.

I prodotti che fanno da traino

I prodotti che hanno fatto da traino sono stati vino, salumi e formaggi. Il vino si conferma il bene italiano in assoluto piu’ esportato, con una quota del 14% e un incremento a valore del 12,7% sul 2020 e del 10,3% sul 2019. Pertanto l’Italia, nell’agrifood, ha fatto meglio di altri importanti Paesi europei, come Francia e Germania, rimasti sotto il 10% (con crescite rispettive di +8% e +4%). Il nono posto, invece, l’Italia se lo aggiudica per valore dell’export agroalimentare mondiale, in una classifica che vede ai primi 5 posti gli Usa (148,6 mld), i Paesi Bassi (103,1%), il Brasile (83 mld), la Germania (75,4 mld) e la Francia (68,3 mld).