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Il Sud Italia in 25 anni ha ‘perso’ 1,6 milioni di giovani

La riduzione degli occupati e i deficit di lungo corso negli ultimi 25 anni hanno determinato al Sud un continuo e progressivo calo del Pil ampliando ulteriormente il divario con le altre aree del Paese. Di fatto, si tratta di una conseguenza della perdita di popolazione, soprattutto giovanile, e quantificabile in -1,6 milioni, e da gap strutturali quali, in particolare, un eccesso di burocrazia, l’illegalità diffusa, carenze infrastrutturali e una minore qualità del capitale umano. È quanto emerge da un’analisi condotta dall’Ufficio Studi Confcommercio sul tema ‘economia e occupazione al Sud dal 1995 a oggi’.

Il Pil pro capite al Sud è la metà del Nord

In 25 anni, infatti, il peso percentuale della ricchezza prodotta dall’area meridionale (Pil) sul totale del territorio italiano si è ridotto di due punti, passando da poco più del 24% nel 1995 al 22% del 2020. Il Pil pro capite invece non ha subito variazioni, ed è sempre rimasto circa la metà di quello prodotto dal Nord Italia. In particolare, nel 2020 è risultato pari a 18.200 euro, contro 34.300 euro del Nord-Ovest e 32.900 euro del Nord-Est.

Il Mezzogiorno registra un crollo della popolazione giovanile

Se nel complesso l’Italia perde 1,4 milioni di giovani nel periodo considerato, ovvero, da poco più di 11 milioni (1995) a poco meno di 10 milioni (2020), si tratta principalmente di giovani meridionali. Mentre nelle altre ripartizioni il livello assoluto, così come la quota di giovani rispetto alla popolazione di qualsiasi età, restano più o meno costanti, nel Mezzogiorno si registra un crollo. Rispetto al 1995, al Sud mancano oltre 1,6 milioni di giovani. In queste condizioni, anche l’eventuale, sebbene improbabile, rapida risoluzione del problema della produttività potrebbe risultare insufficiente a migliorare il processo di costruzione di benessere economico/sociale del Mezzogiorno, almeno in termini aggregati.

PNRR, risorse destinate al Sud per sviluppare e innovare le infrastrutture

Se il Prodotto interno lordo del Sud in poco più di venti anni è passato da oltre il 24% al 22% sul totale del Paese le ragioni sono molteplici, ma per Confcommercio le principali sono due, riporta Italpress. Ovvero, la decrescente produttività totale dei fattori, conseguenza dei gap di contesto che affliggono le economie delle regioni meridionali, e la riduzione degli occupati, conseguenza della riduzione della popolazione residente.
“Rilancio dell’economia, grazie ai vaccini, e piano nazionale di ripresa sono un’opportunità irripetibile per il nostro Mezzogiorno – commenta il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli -. In particolare, le risorse del PNRR destinate al Sud, circa 82 miliardi, permettono di sviluppare e innovare le infrastrutture di quest’area. E migliori infrastrutture significano anche migliore offerta turistica, la straordinaria risorsa del Meridione”.

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Università italiane, la classifica del Censis

Ritorna anche quest’anno l’appuntamento con le classifiche delle università italiane elaborate dal Censis, analisi basata sulla valutazione degli atenei (statali e non statali, divisi in categorie omogenee per dimensioni) in relazione a strutture disponibili, servizi erogati, borse di studio e altri interventi in favore degli studenti, livello di internazionalizzazione, comunicazione e servizi digitali, occupabilità. A questa classifica si aggiunge il ranking dei raggruppamenti di classi di laurea triennali, dei corsi a ciclo unico e delle lauree magistrali biennali secondo la progressione di carriera degli studenti e i rapporti internazionali.

Atenei statali, i top dai mega ai piccoli

Tra i mega atenei statali (quelli con oltre 40.000 iscritti) nelle prime due posizioni si mantengono stabili, rispettivamente, l’Università di Bologna (punteggio complessivo di 91,8) seguita dall’Università di Padova (88,7). Scendendo nella classifica troviamo La Sapienza di Roma (85,5), e l’Università di Firenze (85,0). Tra i “grandi” (atenei da 20.000 a 40.000 iscritti) la medaglia d’oro è confermata a Perugia (93,3), seguita da Salerno, che sale ben di 6 posti (91,8), e quindi dall’Università di Pavia (91,2). Per quanto riguarda i medi (da 10.000 a 20.000 iscritti) anche quest’anno l’Università di Trento è pima nella classifica (97,3), mentre il secondo e il terzo posto sul podio spettano rispettivamente a Siena (94,0) e Sassari (92,8). Nella classifica dei piccoli atenei statali (fino a 10.000 iscritti) difende la prima posizione l’Università di Camerino (98,2), seguita dall’Università di Macerata (86,5). Scalano la classifica due atenei laziali, l’Università di Cassino (84,7) e l’Università della Tuscia (84,3).

Privati, la Bocconi si conferma al vertice

Tra i grandi atenei non statali (oltre 10.000 iscritti) è in prima posizione anche quest’anno l’Università Bocconi (96,2), seguita dall’Università Cattolica (80,2). Tra i medi (da 5.000 a 10.000 iscritti) è la Luiss a collocarsi in prima posizione, con un punteggio pari a 94,2, mentre la Lumsa ha totalizzato 85,8.

Immatricolazioni e quote rosa in crescita

Nei mesi scorsi si è temuto un “effetto Covid” sulle immatricolazioni, previste in calo. Ma così non è stato. Nell’anno accademico 2020-21 si è registrato un aumento del 4,4%  degli iscritti, confermando così una tendenza in crescita che si ripete da 7 anni. Calcolato sulla popolazione diciannovenne, il tasso di immatricolazione ha raggiunto quota 56,8%. Un altro dato che balza agli occhi è la crescita delle ragazze. Nel 2020, a fronte di un tasso di immatricolazione maschile pari a 48,5%, quello femminile è stato del 65,7%. Per le femmine si è registrato un incremento annuo del 5,3% rispetto al +3,3% dei maschi immatricolati. Che facoltà preferiscono le ragazze? Ancora quelle dell’area disciplinare Artistica-Letteraria-Insegnamento, con il 77,7% di studentesse immatricolate, mentre l’area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) totalizza il 39,4% delle iscrizioni, anche se in crescita anno su anno.

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Guardare lo smartphone induce negli altri un’imitazione “contagiosa”

Guardare gli altri che guardano lo schermo dello smartphone è altamente ‘contagioso’, e rientra nei cosiddetti fenomeni di mimica spontanea, un po’ come l’impulso di sbadigliare quando vediamo sbadigliare qualcuno, o ridere se anche altri ridono. Si dice infatti che la risata è contagiosa, e a quanto pare lo è anche lo smartphone. Nel caso del telefonino l’imitazione del comportamento altrui si manifesta entro 30 secondi, al di là delle differenze di genere, età o livello di familiarità delle persone, che siano estranei, conoscenti, amici o parenti. Lo ha rivelato uno studio condotto da un team di ricercatori dell’università di Pisa, e pubblicato sul Journal of Ethology.

L’imitazione è un fenomeno biologico che accresce la familiarità tra i soggetti

“La mimica spontanea come il contagio della risata o dello sbadiglio, è un fenomeno biologico che accresce la familiarità tra i soggetti avendo un ruolo nello sviluppo delle relazioni sociali – ha spiegato Veronica Maglieri dottoranda dell’ateneo pisano -. Ma in questo caso, sembra produrre un risultato opposto, poiché attivando la nostra necessità di usare il cellulare anche quando siamo in compagnia, ci allontaniamo dalla realtà che stiamo vivendo e veniamo traghettati verso una realtà completamente virtuale, anche se siamo circondati da persone fisiche”.

Il primo approccio etologico di uno studio sull’uso dei telefonini

Si tratta della prima ricerca che applica un approccio etologico all’uso dei telefonini. Per realizzare lo studio, spiega una nota, i ricercatori hanno osservato gruppi di persone ignare della ricerca controllando il loro comportamento dopo essere stati esposti a due diversi stimoli. Nel primo caso gli sperimentatori hanno preso il loro smartphone e lo hanno manipolato per almeno cinque secondi guardando direttamente lo schermo illuminato. Nell’altro caso hanno eseguito esattamente le stesse azioni fatta eccezione per lo sguardo, che non è stato diretto verso lo schermo illuminato, ma altrove, spostando quindi l’attenzione dallo schermo, riporta una notizia Ansa.

L’imitazione si manifesta entro 30 secondi

Il risultato dello studio, ha spiegato l’ateneo pisano in una nota, “è stato che nel primo caso, con un’altissima frequenza, le persone prendevano i loro smartphone e si mettevano a guardarli entro 30 secondi, mentre la mera manipolazione del telefonino non è sufficiente a evocare un fenomeno di mimica spontanea”. Secondo i ricercatori la molla che fa scattare il contagio è dunque l’attenzione. In pratica, la “dipendenza” dallo schermo del telefonino si propaga anche a chi è nelle vicinanze. Un aspetto, questo, su cui forse sarebbe necessaria un’ulteriore riflessione.

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È meglio l’Intelligenza artificiale di un politico in carne e ossa?

II 59% degli italiani pensa che sia meglio essere governati dall’Intelligenza artificiale piuttosto che da un politico in carne e ossa, una percentuale superiore alla media europea. Si tratta di un dato emerso da una ricerca condotta a livello globale dal Center for the Governance of Change dell’IE University di Segovia, in Spagna, attraverso interviste effettuate a 2.769 persone di 11 Paesi europei ed extra UE. Secondo la ricerca, se in Europa è il 51% dei cittadini ad affermare di essere favorevole a un’opzione del genere, in Cina questa percentuale sale addirittura al 75%. La ricerca dell’ateneo spagnolo dimostra quindi il disamore dei cittadini verso la classe dirigente del proprio Paese. Ma non tutti sono ugualmente d’accordo con l’AI in parlamento.

La Spagna è a favore dell’AI in Parlamento, il Regno Unito è contrario

La ricerca conferma i risultati di uno studio condotto sempre dall’ateneo spagnolo un paio di anni fa a livello aziendale, da cui era emerso che i dipendenti avrebbero preferito un algoritmo rispetto a un manager “vero”. In ogni caso, a livello europeo la percentuale più alta di persone che oggi preferirebbe un algoritmo a un politico è in Spagna (66%), e nel nostro Paese sarebbero favorevoli poco meno del 60% dei cittadini. Al contrario, nel Regno Unito, il 69% delle persone intervistate non vede di buon occhio la sostituzione dei parlamentari con l’Intelligenza artificiale, così come il 56% degli olandesi e il 54% dei tedeschi. E a essere contrario è anche il 60% degli statunitensi.

Le opinioni variano anche a seconda dell’età

Le opinioni in merito però variano anche a seconda delle fasce di età. I più giovani sono infatti i più aperti all’ipotesi dell’Intelligenza artificiale in Parlamento, più in particolare, la pensa così oltre il 60% degli europei di 25-34 anni e il 56% degli europei di 34-44 anni, mentre gli over 55 in generale sono più spesso contrari. Inoltre, il 72% del campione favorevole a sostituire l’Ai con i politici è anche favorevole al voto elettronico, magari tramite app sul proprio smartphone. La pensa così il 64% dei britannici.

Il risultato della perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche

Questi risultati sono il prodotto di “anni di perdita di fiducia nella democrazia come forma di governo – commenta Oscar Jonsson, direttore accademico del Center for the Governance of Change e tra i principali autori dello studio -. La percezione di tutti è che la politica stia peggiorando e ovviamente ai politici vengono attribuite le colpe, quindi penso che il rapporto catturi lo spirito del tempo”. I motivi di scetticismo, riporta Ansa, secondo i ricercatori sono legati alla crescente polarizzazione politica e alle bolle informative, ovvero, la personalizzazione dei risultati delle ricerche sui siti in base al comportamento dell’utente.

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I conti dello smart working: quanto costa lavorare da casa?

Tra le principali novità introdotte nelle nostre vite negli ultimi mesi c’è sicuramente lo smart working. Il lavoro da remoto, insieme alla didattica a distanza, è uno degli aspetti che più ha rivoluzionato le nostre abitudini. Niente scrivania al proprio posto di lavoro, quindi, perché le proprie mansioni si svolgono a casa. Per moltissimi, infatti, il salotto o la camera si sono trasformati di colpo in un ufficio. Ma – oltre a una certa comodità per molti, che permette di evitare trasferimenti e orari complicati – quanto ha inciso sulle bollette di casa questa nuova “normalità”? Ovvero, quanto ci costa in termini di elettricità, gas, Internet? A fare i conti è l’ultimo report SOStariffe.it, che ha stimato tutte le maggiorazioni di spesa dovute alle attività di studio/lavoro casalingo nel 2020 scoprendo che in media gli italiani hanno speso tra 145 (i single) e 268 euro in più (le famiglie).

Single, coppia o famiglia?

Naturalmente la situazione è diversa a seconda della composizione del nucleo familiare. Per questo l’indagine ha preso come riferimento tre profili di consumatore tipo: il single, la coppia e la famiglia. Si è calcolata la spesa media annuale di ciascuno e, tramite simulazioni, si è potuto stimare l’incremento dei consumi dovuto alle nuove attività da casa. È emerso che, nel complesso, i single hanno speso 145 euro in più, le coppie se la sono cavata aggiungendo 193 euro alle solite bollette e, infine, le famiglie hanno dovuto mettere in conto 268 euro in più. Il profilo di consumatore-tipo che ha risentito di più dei rincari dovuti allo smart working sono proprio le famiglie (quelle considerate dallo studio SOStariffe.it sono composte da due genitori e un figlio).

Approfittare delle offerte del libero mercato

Complessivamente i nuclei familiari hanno speso, in media, 2058 euro per le bollette nel corso del 2020 (di cui 1661 per la luce e il gas e 397 per la connessione da rete fissa). In questo caso l’incremento di spesa sostenuta in smart working si aggira sui 268 euro. Per risparmiare sulle utenze, consigliano gli esperti di SOStariffe, l’indicazione è di passare al libero mercato individuando le migliore offerta luce o gas, magari una promozione di tipo dual fuel. P er quanto riguarda la connessione domestica, invece, ci sono offerte con la fibra ottica Ftth, a meno di 30 euro mensili. Tra le novità a sostegno delle famiglie c’è anche il bonus smart working, un’agevolazione in arrivo che potrebbe essere erogata sotto forma di contributo una tantum.

 

 

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A settembre tornano a crescere gli attacchi informatici

In Italia i mesi estivi sono stati caratterizzati da un calo dei reati informatici, ma a settembre il cybercrime è tornato in azione. Dal terzo rapporto sulle minacce informatiche nel 2020 in Italia, elaborato dall’Osservatorio sulla Cybersecurity di Exprivia, emerge un andamento che sembra marciare parallelo a quello della pandemia di Coronavirus. Nell’ultimo trimestre infatti, tra attacchi informatici, incidenti e violazioni della privacy sono stati segnalati 148 episodi, circa la metà dei quali solo a settembre (70). La PA è il settore più colpito, con i Comuni tra gli obiettivi più vulnerabili.

PA, Finance, Industry e Sanità i settori più colpiti

Rispetto al trimestre precedente è raddoppiato il numero di episodi riguardanti la PA (34 attacchi), la metà dei quali nel solo mese di settembre a causa della ripresa delle pratiche telematiche. Tra gli obiettivi preferiti dai criminali i Comuni, spesso non in grado di affrontare le minacce informatiche in maniera adeguata, seguiti dal settore Finance (23 episodi, +44% rispetto al secondo trimestre 2020), il settore Industry (+33%), con attacchi che hanno riguardato in particolare le aziende energetiche e manifatturiere, e la Sanità, dove i fenomeni aumentano del 38%. Chiude la classifica dei settori più colpiti il Retail, che ha visto quasi triplicare gli eventi negli ultimi tre mesi.

Le tecniche di attacco sono sempre più complesse

Tra i settori in calo, l’Education, che subisce appena un quarto dei fenomeni rilevati nel trimestre precedente, per via della mancanza di attività scolastiche e universitarie durante l’estate. Dimezzati, inoltre, gli eventi registrati nella categoria Others (settori produttivi minori e altri ambiti, inclusi i sistemi di accesso alla Rete dei cittadini e le truffe nei loro confronti), oltre che gli attacchi ai profili social di personaggi pubblici. Gli esperti di Exprivia sottolineano nel periodo di analisi un calo degli attacchi informatici dell’11% rispetto al trimestre aprile-giugno (da 119 a 107), mentre gli incidenti (25) hanno subito una riduzione del 46%. Probabilmente le tecniche di attacco sono sempre più complesse e risulta più difficile identificare in maniera efficace i cyber-criminali, e quindi dare contezza degli incidenti.

Oltre il 58% riguarda il furto dei dati

Oltre il 58% degli episodi continua a provocare come danno il furto dei dati, superando di gran lunga le perdite di denaro e le violazioni della privacy, che contano comunque 16 episodi (quasi il triplo dei tre mesi precedenti), per un totale di circa 18 milioni di euro di sanzioni irrogate dal Garante per la protezione dei dati personali. Tra le tecniche più sfruttate primeggia il phishing-social engineering (62 eventi), che colpisce in maniera particolare utenti distratti o con poca conoscenza delle modalità di adescamento tramite e-mail o social network. Seguono, entrambi con 37 eventi, i malware, il cui utilizzo è triplicato nel corso dei nove mesi, e gli unknown, nuove metodologie sperimentate dagli hacker per non essere rilevati dai meccanismi di difesa tradizionali.

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Made in Italy, reshoring e sostenibilità al centro dei consumi post Covid

Made in Italy, reshoring e sostenibilità saranno gli elementi differenzianti nello scenario post Covid-19. Nel new normal, in un’ottica di solidarietà collettiva, sul lato consumi si attende la preferenza per prodotti sicuri e gratificanti, con un balzo in avanti per l’e-commerce, specie nell’e-grocery, mentre sul lato business la parola d’ordine sarà collaborazione. Il rilancio dei consumi post pandemia è stato al centro del quinto digital event Italia 2021-Competenze per riavviare il futuro, organizzato da PwC Italia. Dall’evento, a cui hanno partecipato le principali Istituzioni, Associazioni di categoria e imprese del settore, sono emerse le priorità da parte delle aziende consumer e retail per riavviare i consumi e l’economia del Paese.

Azioni di sistema sulla filiera Moda

Se nel Food le aziende hanno perso 3 anni di fatturato per la moda si attende una contrazione del -18,6% rispetto al 2019 (Prometeia e Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo). L’Italia, primo produttore di moda di lusso al mondo e nel tessile, abbigliamento e accessori in Europa deve difendere il suo primato, anche con misure straordinarie. A giugno infatti è stato siglato un percorso strategico la ripresa del commercio internazionale che prevede una campagna di comunicazione internazionale a favore del Made in Italy, sviluppo dell’ecommerce attraverso accordi con le piattaforme internazionali, finanza potenziata e semplificata a vantaggio delle imprese.

Puntare su digitalizzazione e sostenibilità

Durante il lockdown l’e-commerce è esploso nel retail food. La GCIS Pulse 2020 di PwC rivela che il 31% di italiani ha scelto il canale online per il grocery e l’85% di questi continuerà a usarlo. È auspicabile perciò che vengano potenziate misure per favorire investimenti sul digitale ed e-commerce, oltre a misure per evitare situazioni di oligopoli. È opportuno inoltre agevolare gli investimenti nell’economia circolare, come precede il Decreto attuativo del MISE di luglio, che mette a disposizione 140 milioni di euro di agevolazioni per progetti di R&S a elevato contenuto di innovazione tecnologica e sostenibilità.

Miglior accesso alla liquidità, Reshoring & Industry 4.0

Secondo l’Istat oltre la metà delle imprese prevede una mancanza di liquidità fino alla fine del 2020, e se il 42,6% ha scelto di accendere un nuovo debito bancario più di 4 imprese su 10 hanno richiesto accesso alle misure di sostegno.

Sarebbe quindi opportuno favorire l’accesso alla liquidità alle aziende, snellendo le procedure di emissioni di linee di credito e rafforzando fondi di garanzia. E se in Italia il tema del reshoring è percepito come leva strategica del Made in Italy un’azienda su due sta accelerando i processi d’automazione, rendendo lo smart working una modalità permanente. Un primo passo è stato compiuto grazie ai finanziamenti previsti dal piano Industria 4.0, che sarebbe opportuno rilanciare e potenziare, insieme a ulteriori incentivi che favoriscano innovazione e investimenti in R&S.

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Durante il lockdown i film superano le serie sulla TV on demand

Se durante il lockdown e nella Fase 2 gli italiani hanno incrementato il tempo dedicato alla fruizione di piattaforme di video on demand tra i generi più apprezzati ci sono i film, che durante il confinamento hanno superato anche le serie TV. Lo sport al contrario, ha registrato una flessione, mentre è rimasto positivo il trend dell’animazione. I dati GfK Sinottica indicano infatti che durante il lockdown il tempo passato a guardare contenuti video sulle piattaforme on demand è aumentato in maniera significativa, ovvero del +73% rispetto al periodo antecedente l’inizio della pandemia.

Un’abitudine però che non sembra essere cambiata con l’allentamento delle misure restrittive. Anche nella Fase 2 il tempo dedicato alle piattaforme VoD è infatti rimasto sopra la media.

Una riscoperta delle narrazioni lunghe

Anche in un contesto di quotidianità “stravolto”, in cui il tempo a disposizione si è moltiplicato e dilatato lungo tutto l’arco della giornata, alcune abitudini sono state mantenute. Ad esempio, il picco della fruizione di contenuti durante il weekend, tipico di queste piattaforme, è rimasto invariato anche durante il lockdown. Quello che invece è cambiato, almeno in parte, è il tipo di contenuti fruiti. Durante il periodo di confinamento, infatti, c’è stata una riscoperta delle narrazioni lunghe, con una decisa crescita della fruizione dei film.

Fase 2, film e serie Tv entrambi al 61%

In particolare, i film sono passati da una visione durante la settimana media pari al 49% prima del lockdown a una del 64% tra il 9 marzo e il 3 maggio 2020. Ma anche con l’inizio della Fase 2 gli italiani sono rimasti affezionati a questo tipo di contenuti, scelti dal 61% dei fruitori on demand anche nel periodo compreso tra il 4 maggio e il 14 giugno. Durante il lockdown però è cresciuta, ma in maniera meno significativa, anche la fruizione delle serie TV, da sempre il genere più visto nel mondo on demand. In questo caso i dati Gfk Sinottica indicano che si è passati da una visione del 55% prima del confinamento a una del 62%, raggiunto nel pieno della crisi Coronavirus. Come per i film, la fruizione delle serie TV è rimasta più alta della media anche dopo la fine del lockdown, con un 61% raggiunto nella Fase 2.

Meno sport più animazione

Due generi che hanno visto cambiare in maniera significativa le abitudini di fruizione degli italiani negli ultimi mesi sono stati lo sport e l’animazione.

Nel primo caso, la cancellazione delle principali manifestazioni sportive ha portato a un netto calo della fruizione dal 17% al 7%, che nella Fase 2 non è ancora tornata ai livelli precedenti la crisi. Il mondo dell’animazione, al contrario, ha fatto registrare un picco di fruizione durante il periodo del confinamento (dall’11% al 16%), probabilmente legato alla necessità, colta dal mercato, di intrattenere i più piccoli durante le lunghe giornate passate in casa.

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Pmi, smart working raddoppiato rispetto a prima dell’emergenza

Il ricorso allo smart working nelle Pmi è raddoppiato rispetto al periodo antecedente l’emergenza coronavirus, mentre lo stesso non è accaduto nelle grandi imprese. A rilevare questa tendenza è un’indagine a cura dell’associazione datoriale Cifa, del sindacato Confsal e del fondo interprofessionale Fonarcom e realizzata dal Centro studi InContra su un campione di quasi 2.000 lavoratori. Tra le altre evidenze, la ricerca mette in luce che il non ricorso al lavoro agile resta per lo più una scelta volontaria del lavoratore; solo per il 30% si deve alla mancanza di strumentazione idonea e per il 22% a una decisione aziendale. Quindi, cosa c’è che non va nello smart working? Secondo gli intervistati, anche se riconoscono a questa modalità un buon potenziale di bilanciamento vita-lavoro, per  il 70% dei rispondenti il problema è la capacità di riuscire a dividere i tempi tra vita professionale e privata. Ancora, circa il 60% dei collaboratori dichiara che, secondo il loro percepito, all’aumento delle ore lavorative non corrisponda un commisurato riconoscimento di straordinari, unitamente al “fastidio” di sentirsi sempre reperibili.

Il risparmio? Un dato di fatto

L’aspetto sul quale sono tutti d’accordo è invece il risparmio, mettendo insieme trasporti, pranzi e altre spese vive. Allo stesso modo, i lavoratori riconoscono l’aumento della propria produttività e l’incremento dell’autonomia e della responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi. Le difficoltà, invece, sono da ricondurre ai problemi di coordinamento con il capo e con il team, di condivisione di informazioni e tempi di risposta. Nella relazione da remoto, infatti, per il 35% dei soggetti non si ha la stessa efficacia che in presenza. Infine, riporta l’analisi, le persone coinvolte nella ricerca si dicono favorevoli a essere valutate sulla capacità di raggiungere i propri obiettivi lavorativi: però molte meno (il 60%) sarebbero d’accordo nel formulare la loro retribuzione in base ai risultati raggiunti: questo a causa di una scarsa fiducia nei confronti della dirigenza.

“Adozione frettolosa dello smart working”

Il presidente di Cifa, Andrea Cafà, ha dichiarato: “Le criticità emerse dall’indagine vanno lette alla luce di un’adozione per lo più frettolosa dello smart working non preceduta da un’adeguata preparazione, da una buona formazione e da un cambiamento culturale. I risultati ci invitano, come Cifa, Confsal e Fonarcom, a consegnare a imprese e a lavoratori, in definitiva all’intero mercato del lavoro, strumenti e soluzioni efficaci per adottare al meglio, da qui in poi, questa modalità lavorativa. Le imprese, però, devono fare un grande sforzo rivedendo i propri modelli organizzativi, investendo in formazione e in strumentazione tecnologica oltre a rafforzare il clima di fiducia”.

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L’accelerazione sul digitale delle nuove abitudini di consumo

Durante l’emergenza da Covid-19 ogni esigenza di consumo è stata declinata secondo la tecnologia digitale, che da Nice2Have diventa un MustHave. Secondo l’Osservatorio Multicanalità 2020, realizzato da Nielsen in collaborazione con la business School del Politecnico di Milano, prodotti all’insegna della safety e del gusto per la cucina in casa, igienizzanti e mascherine, carrelli della spesa colmi, riscoperta della tv tradizionale, ma picchi delle piattaforme streaming, oltre a maggiore esposizione ai social sono alcuni degli elementi che hanno distinto questo periodo.

Omnicanalità, la chiave interpretativa dello scenario post-Covid

“Due fenomeni opposti, come quello dell’eCommerce e del ritorno al negozio fisico di prossimità, si trovano a convivere lanciando sfide inedite. L’omnicanalità diventa così la chiave interpretativa adeguata dello scenario di mercato post-Covid”, – osserva Stefano Cini, Marketing Analytics Director di Nielsen Connect Italia. Parallelamente siamo entrati in quella che sarà ricordata come #AgeOfQueues, il fenomeno delle “code”, non solo fisiche, ma anche virtuali sui siti delle grandi insegne. Del 47% degli shopper che ha rinunciato almeno una volta alla spesa, il 22% adduce infatti come causa gli eccessivi tempi di attesa, riporta Ansa.

La competizione si è spostata dai metri quadri al livello di servizio

Il 58% di chi ha fatto la spesa online non aveva mai provato questo servizio e l’83% di questi dichiara che continuerà a farla anche nel post-Covid. Ma quello che è cambiato è anche il carrello della spesa, tanto che nel periodo Post-Covid il #RebalancedBasket ha visto i consumatori ridurre la frequenza di spesa del 13%, aumentare lo scontrino medio del 27% e raddoppiare il numero di cose presenti nel carrello. Nei primi mesi della crisi, la competizione si è spostata dai metri quadri al livello di servizio. La crescita dei negozi di vicinato e dell’eCommerce ha di fatto dimostrato che vi è una #ServiceElasticity, ossia che la domanda dei consumatori è più elastica al servizio erogato che non ai prezzi.

Il lockdown spinge la diffusione delle offerte in streaming o Video On Demand

Sempre secondo l’Osservatorio, poi, risalta anche il tempo speso davanti agli schermi televisivi, con un incremento omogeneo in tutti i continenti. In Italia, la tv tradizionale (free to air e pay per view) si dimostra resiliente, ma il lockdown spinge la diffusione delle offerte in streaming o Video On Demand (Netflix, Prime Video, Disney+, Tim Vision, Raiplay, Mediaset Play, Infinity, Dplay, Now Tv). Una tendenza che emerge chiaramente attraverso il volume di commenti sui social network (+140% vs aprile 2019). In molti casi, inoltre, si osserva una impennata nella intensità e numero di utenti unici di categoria già in crescita costante da mesi, come ad esempio nei siti di web conferencing, assicurazioni, e home banking. Un numero rilevante di nuovi utenti digitali con i quali le aziende avranno la possibilità di aprire un canale di comunicazione.