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Lo smart working, introdotto dalle aziende “in corsa” per l’emergenza sanitaria, è diventato a tutti gli effetti una modalità di lavoro estremamente diffusa e applicata. Tanto che, a oggi, sono ancora 3,6 milioni i lavoratori da remoto. Anche se si tratta di circa 500 mila unità in meno rispetto al 2021, con un calo in particolare nella Pubblica Amministrazione, le previsioni parlano di un graduale aumento del remote working nel corso del 2023, fino a 3,63 milioni, grazie al consolidamento dei modelli di smart working nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento nel settore pubblico. I dati sono il frutto della ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano.

I profili dei lavoratori 

Ma chi sono i lavoratori a distanza, e di quale tipologia? A questo quesito risponde ancora la ricerca, evidenziando che in base alla modalità di lavoro adottata, è possibile identificare tre profili di lavoratori. Si tratta di on-site worker, che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro, lavoratori remote non smart, che hanno la possibilità di lavorare da remoto ma non altre forme di flessibilità, e smart worker, che hanno flessibilità sia di luogo sia oraria e lavorano secondo una logica orientata agli obiettivi. Analizzando il benessere dei lavoratori sia dal punto di vista psicologico che relazionale, gli smart worker hanno migliori risultati sia rispetto agli on-site worker sia ai lavoratori remote non smart. Questi ultimi mostrano livelli di benessere più bassi non solo rispetto agli smart worker, ma su molte dimensioni anche rispetto ai lavoratori on-site che non hanno la possibilità di lavorare da remoto. La sola possibilità di lavorare da remoto, se non accompagnata da un’opportuna revisione del modello organizzativo, non dà benefici ai lavoratori in termini di benessere ed engagement. 

Benessere più elevato fra gli smart worker

I lavoratori che manifestano i livelli più elevati di benessere sono infatti gli smart worker, tra i quali il 13% risulta pienamente ingaggiato, mentre i lavoratori remote non smart privi di flessibilità ulteriori oltre a quelle di luogo di lavoro, risultano avere minore benessere e un livello di engagement molto basso (6%), inferiore non solo ai veri smart worker, ma anche ai lavoratori on-site (12%). Il solo lavoro da remoto, cioè, se non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi, non porta benefici né a livello personale né organizzativo, ma può invece condurre a esiti più negativi persino rispetto a chi non ha alcuna forma di flessibilità come i lavoratori on-site. Chi ha applicato lo smart working in modo emergenziale durante la pandemia deve essere consapevole che, se tornare indietro a un modello tradizionale di lavoro on-site può risultare difficile o impopolare, fermarsi a una applicazione superficiale, senza un’evoluzione coerente del modello organizzativo e manageriale che preveda una crescita di autonomia nella gestione degli orari e nel lavoro per obiettivi, rischia di non far ottenere benefici di miglioramento di produttività e benessere, e addirittura peggiorare la situazione rispetto a una condizione tradizionale di lavoro on-site.